…fattene una ragione, ogni tanto serve…

Non so nulla di nulla, non conosco quel pezzo, non ho visto quel film, non mi ricordo il suo nome e nessuna fra le idee che partorisco volge a dare un senso definitivo alla mia vita.
Inoltre, ogniqualvolta sento una frase composta da tra parole, non posso fare a meno di pensare a che senso avrebbe la stessa mescolandone a caso i termini.
Ma tutto ciò non mi rende peggio di te, quindi smettila di usare quel tono con me.

…riflettendosi ad occhi chiusi…

Rifletto.
Non posso evitarlo, non so fare altro, sono nato specchio.
Ti ricordi di me? Hanno detto tante cose sul mio conto.
Ti ricordi com’ero?
Sono stato bello, sono stato brutto.
Sono stato dolce, sono stato crudele.
Provavo odio, provavo amore.
Sono stato pieno di sogni, emozionato, in lacrime, crucciato, allegro, in mezzo a tanta gente, cinico, iperattivo, appannato, brillante e ammirato.
Ho urlato e corso nella pioggia, scalato montagne, nuotato, vinto e perso.
Ho aiutato persone, portato dolore ad altre, con molti ho gioito, da molti mi sono fatto odiare.
Ero io.
Eri tu.
Perchè io sono uno specchio.
Bello nella misura in cui tu lo sei.
Appassionato delle tue passioni.
Hai provato a guardare dentro di me, sbirciando dietro l’angolo sinistro al bordo della cornice, e hai creduto che io fossi profondo e grande quanto il mondo.
Ma ti rivelo un segreto: in ogni singolo raggio di luce è contenuta ogni forma, ogni colore, ogni informazione di tutto l’infinito.
Mentre mi guardavi ti ingannavo. Era la tua energia che riflettevo in ogni direzione.
Ho visto luoghi diversi e persone diverse, sono stato ognuno di questi. Luminoso in tanti modi, il tempo di una notte, due anni, una settimana.
Ma sono solo uno specchio appeso ad un muro.
Una finestra su un infinito di luce, un quadro meraviglioso e diverso a ogni sguardo.
Sono solo uno specchio appeso a un muro.
E ora che la casa è chiusa, le imposte serrate, le stanze silenziose, non una stilla di luce mi eccita.
Immobile rifletto sul nulla, un cosmico buio e freddo infinito.
Non ci sono stelle nel mio cielo, una finestra aperta su un vuoto, nero, niente.
Aspetto il mai, consapevole che il mio ricordo è una burla, l’antitesi di vite altrui.
Sono il ritratto dell’assenza.
Sono uno specchio.
Sono il nulla.

…di soffitti intonacati…

Voi non potete capire quanto sia esigente il mio soffitto.
Mi è impossibile pensare di avere un animale domestico, quando devo riservare ad esso così tante attenzioni ed energie.
Necessita di essere osservato, senza mai distogliere lo sguardo, per interi fine settimana!
Come se non peggio di un cucciolo, appena ci si distrae e lo si abbandona a se stesso per un attimo, si mette a giocare con i fili dei pensieri: li tira, li strappa, li mischia e li attorciglia.
E quanto lavoro poi per risistemare tutto, su quella grossa tela intonacata di bianco.
Certe volte penso: “Ma chi me lo fa fare?!?”
Allora spengo la luce, ignoro i suoi sussurri o quello strano rumore di pallina che rotola che fa, per attirare la mia attenzione, e tento di dormire e recuperare un po’ di energie per uscire.
Poi però mi faccio sempre intenerire, esso così sempre disponibile a tutte le mie fantasie, così bravo ad ascoltare dall’alto ma senza imporre la sua presenza.
Prima o poi mi risponderà, lo so, e quel giorno saprò che saremo cresciuti entrambi, entrambi in grado di esistere da soli.

Il Piano B.

La polizia accorse, chiamata dalla donna che avrebbe dovuto fare le pulizie.
Era piuttosto chiaro perchè non le avesse fatte infine.
L’uomo giaceva steso sul letto, i piedi scalzi verso la porta d’ingresso, la camicia aperta sul petto. La testa, rivolta a guardare la finestra aperta, poggiava su un cuscino un tempo candido, ora più simile alla bandiera del Sol Levante. Gli occhi aperti sembravano apprezzare la vista, molto oltre l’orizzonte.
La mano destra pendeva, riversa oltre il bordo, la pistola, un modello affidabile, ancora appesa alle dita inermi.
Sul comodino, fermato da un posacenere pieno di ordinati mozziconi, si notava il biglietto.
L’ufficiale di polizia lo sfilò con cura e lo lesse:
«Vi ho fregati! Non c’era nessun piano B.»

Lo sparring partner

tap tap tap tap tap
La palestra semivuota aveva un odore acre di muffa e muschio. Non buono ma in breve tempo entrava nel cervello, come il ricordo nostalgico di un vecchio amico. E ad alcuni capitava poi di sentirne la mancanza.
tap tap tap tap tap
In un angolo, il cane di Franco fissava vigile i suoi occhi su qualche disgraziato intento a fare piegamenti, flessioni e addominali. Quel vecchio bastardo era un allenatore quadrupede molto efficace: finchè Franco non lo avesse richiamato non ti potevi fermare. Avvertiva solo una volta, ringhiando, poi erano morsi alle caviglie finchè non ti rimettevi al lavoro.
tap tap tap tap tap
Qualcuno saltava la corda.
tap tap tap tap tap
Sudava copiosamente e dagli avambracci le gocce scivolavano sulla corda e da lì schizzavano stille salate un po’ ovunque, nell’aria calda e satura della palestra.
tap tap tap tap tap

Manolo colpiva forte sul sacco.
Jab, jab, destro, gancio sinistro, un passo indietro, low kick destro
Il sacco si piegava, oscillava all’indietro e sul tempo di ritorno ne prendeva ancora.
Destro, sinistro, montante destro
I vecchi stracci incassavano muti all’interno del sacco di cuoio. Si piegavano e riprendevano forma in attesa dei prossimi colpi.
Due jab per prendere la misura, calcio frontale sinistro, il sacco ritorna
Manolo schiantò un destro potente e sentì gemere le ossa della mano, strette nelle fasce, chiuse nel guantone.
Sinistro, destro, sinistro, gancio destro
Il colpo era fuori tempo. Il guantone madido di sudore scivolò sul sacco che oscillando colpì forte il gomito.
Manolo sentì torcersi dolorosamente la spalla.
Due rapidi calci col sinistro, basso, medio. Il sacco indietreggia, destro, sinistro, tallone destro a fermare la massa di cuoio e stracci
Il fiato grosso, gli occhi appannati dal sudore della fronte, Manolo ritrasse il collo nelle spalle e a testa bassa riprese a colpire.
Destro, sinistro, destro, sinistro, destro, sinistro, gamba destra avanti, la sinistra ruota, middle kick
Ancora e ancora e ancora. La catena che reggeva il sacco ringhiava la sua tenacia d’acciaio sugli strappi dei contraccolpi.
Tutto il peso sulla gamba sinistra, testa in avanti, sguardo basso, gancio destro, gancio sinistro
Manolo caricò sulla destra pronto a sferrare un frontale sinistro ma la gomma della scarpa, tradita dall’umidità umana sul linoleum, non fece presa. Ossa, muscoli e tendini, tutto scivolò in avanti. Colto di sorpresa, tentò goffamente di appoggiare la mano sinistra al sacco per reggersi ma la mano, avvolta nell’imbottitura del guanto, non fece buona presa. Il polso si piegò molto dolorosamente all’indietro e la faccia di Manolo piombò sul sacco. Per pochi attimi, con la guancia che strisciava verso il basso, ne assaporò la fragranza di cuoio e sale, la cartilagine del naso si ferì e ne uscì del sangue.

– Basta così! Per oggi gliene hai date abbastanza. Vieni qua piuttosto, a farti medicare, mi stai ridipingendo la palestra in rosso razza di idiota.

La palestra, in effetti, di una mano nuova di vernice ne avrebbe avuto davvero bisogno e Manolo non era soddisfatto, bruciava di una stupida sensazione simile all’umiliazione ma con Franco non era il caso di discutere. Si mise un asciugamano sulla testa e si sedette, in attesa che Franco lo medicasse e lo aiutasse a togliere i guantoni.
Sbuffava e odorava di sigaro mentre gli sfilava i guantoni. Delicatamente gli svolgeva le bende e con le dita, grandi e tozze, soppesava le mani di Manolo, come a valutare se ci fossero danni. Lo sguardo degli occhi cisposi era tenuto basso sulle nocche di quelle mani chiaramente doloranti. Forse non stava veramente guardando, perchè non tirò su il suo naso schiacciato, così tipico per un pugile, quando riprese a parlare.

– Chi è il tuo sparring partner?

– Scusa? Io non sono professionista, lo sai, non ho uno sparring partner per allenarmi.

– Ah! La tua ombra, la faccia sul sacco, chi cazzo ci vedevi? A chi le stavi dando così di santa ragione, ottuso figlio di puttana? Non sei qui da molto e naturalmente la tua tecnica fa pena ma devo ammettere, dannata miseria nera, che ci metti anima e sangue a menar le mani. Quel che so della vita io l’ho imparato tirando pugni, prendendo pugni e guardando altri tirare pugni e tu hai decisamente l’aria di uno che ha bene in mente a chi vorrebbe spaccare il grugno. Il che potrebbe pure essere un bene, quindi – Franco alzò la testa e sospirò, soffiando una miscela di sigaro toscano e grappa a tre centimetri dal naso di Manolo – contro chi combatti? Su chi hai bisogno di vittoria?

Manolo ora fissava negli occhi il vecchio. Si prese il suo tempo, forse per timidezza perchè la risposta la conosceva bene, ma alla fine rispose.

– Ci sono io. Combatto contro me stesso. Ci sono solo io che colpisco me stesso. Vinco a ogni colpo. Vinco a ogni osso incrinato, a ogni cartilagine schiacciata, a ogni livido, a ogni taglio. Se resto in piedi ho vinto io, se cado a terra ho vinto io. L’unica cosa che conta è che io continui a colpire. Non ci può essere tregua, nè armistizio, nè resa, perchè in quel caso sarei costretto ad ammettere a me stesso la sconfitta. Ho scoperto che odiare se stessi può essere il significato di una vita intera.

– Uhm. Sei proprio un gran figlio di puttana. Ma forse non così ottuso come pensavo. Tieni, mettici del ghiaccio su quel naso.

Franco riprese in mano il suo sigaro, lo riaccese e si mise a sbuffare fumo, lentamente, lo sguardo rivolto fuori, attraverso la finestra oscurata. Filtravano le luci delle auto e le ombre dei passanti.

…il fatalismo di chi se lo può permettere…

Cedere al fatalismo è una costante tentazione.
Accettare il destino, la leggerezza della resa a un disegno prefissato da qualcosa oltre la mia portata, oltre la mia comprensione, mi aiuterebbe a vivere meglio, con meno crucci, con meno rimorsi.
Ma credo che esistano solo due categorie di persone che possano permettersi di definirsi fatalisti, due categorie di persone in realtà accomunate dalla stessa caratteristica, solo di segno opposto: coloro i quali hanno vissuto una molto lunga, improbabile per quanto matematicamente possibile, serie di eventi straordinariamente fortunati o straordinariamente sfortunati.
I primi possono ben gioire della loro facile fortuna e ringraziare il fato. Che esista o meno il fato non ha importanza.
I secondi si possono almeno consolare pensando a che, se il destino ciò gli ha riservato, essi non ne hanno colpa.
Per tutti gli altri, per quelli come me che vivono le quotidiane alterne vicende, il fatalismo è solo una scusa per i propri errori, è il non voler ammettere le proprie responsabilità di fronte alle sciagurate scelte operate durante la propria vita meschina e mediocre.
Il fatalismo è una tentazione, un comodo cuscino, un vellutato drappo per celare le mie brutture.
Per questo resisterò sempre al fatalismo: perchè ho fatto troppi errori, perchè ho troppe responsabilità e troppi rimorsi e l’unico modo che ho, per mantenere un poco di dignità e una flebile speranza per il futuro, è avere sempre ben presenti le mie colpe in ciò che mi sono costruito attorno.
Solo chi ha ricevuto tanto senza sforzo si può permettere di sbagliare senza timore di rovinarsi.
E chi non ha ricevuto nulla, nonostante sforzi e meriti, non ha nulla da perdere a sfidare ancora la sorte.
Io sono nella salmastra mediocrità umana, posso solo evitare di ripetere i miei errori.

…incosapevoli rivoluzioni eliocentriche…

Non ho mai capito chi non vuole che orari e giorni di apertura degli esercizi commerciali siano a totale discrezione degli stessi e non imposti per legge. Anche perchè le motivazioni di chi avversa tale liberalizzazione per la maggior parte si riassumono in: la domenica è il giorno del signore.
Certo, se pure lui s’è stancato, figurati se noi non ci possiamo riposare ma, a meno di un mio grosso svarione, mi pare di capire che le ore di lavoro settimanali siano un fisso definito dai contratti nazionali, di solito 40 ore a settimana, più gli straordinari ma mai oltre un certo limite e con riposi compensativi per certi giorni e/o fasce orarie  particolari.
Quindi, se mi tocca di lavorare sabato e domenica, giocoforza avrò liberi che so, il lunedi e il martedì?
Il problema dove sta allora?
Sempre secondo questa cosa, che mi sembra si chiami logica, se un esercizio commerciale o quel che l’è vuol stare aperto 7 giorni su 7, sarà costretto ad assumere più personale. E visto che pagare stipendi costa, credo, un negozio deciderà gli orari in modo da massimizzare gli introiti o sarà costretto a fallire. Se non fallirà magari avrà aumentato il numero di posti di lavoro e gli stipendi erogati in più andranno a beneficio del potere di spesa comune e tutti quei discorsi lì.
Non ti piace lavorare il sabato e la domenica? Però ti fa piacere trovare il pane fresco la mattina e le strade pulite e i cassonetti svuotati di notte e il pronto soccorso disponibile a qualunque ora e la macchina nuova in arrivo in tempi brevi grazie ai turnisti e le vacche munte ogni alba eccetera eccetera…
E allora, con tutto il rispetto per chi un lavoro fatica a trovarlo, se non ti piace l’orario di lavoro concordane uno diverso o cambia mestiere.
Piuttosto, a me sta sulle palle trovare le banche chiuse, le poste chiuse, gli uffici comunali chiusi e soprattutto, ah quanto odio, gli spedizionieri che consegnano sempre e solo in orari d’ufficio suonando a campanelli residenziali che non potranno che restar muti…
Il pianeta Terra gira, potrà non piacerti questa frenesia moderna ma per oggi va così, potrà non piacerti ma il pianeta non lo sa quand’è domenica, ogni sua rotazione è uguale all’altra.
E non so te ma io me li ricordo i negozi aperti la domenica mattina lungo la strada del paese che porta alla chiesa. Già allora ci si sbagliava?

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